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È 'Ora': a scuola con... Jovanotti

Di Luca Pakarov

Quando c’è da spaccare le palle siamo in prima linea, ma ci siamo anche quando accadono piccoli e deliziosi miracoli. A passarci la palla è stato Jovanotti quando ha postato su Facebook un video della sua canzone Ora, girato dagli studenti dello Scientifico Algeri Marino di Casoli, provincia di Chieti, con il loro insegnante di cinema, Walter Nanni. Nel video la canzone di Jovanotti è il medium di aggregazione fra alunni e insegnanti, mentre proprio le icone di Facebook, in basso, sono i messaggi che la canzone, ma soprattutto i volti dei ragazzi, suggeriscono.

Perché ci siamo meravigliati? Perché ci è sembrata una storia con molteplici significati, perché la scuola pubblica è diventato una specie di ghetto, perché fa più notizia mostrare piccoli delinquenti in erba che studenti impegnati, perché ci siamo abituati a galvanizzarci solo per le malefatte. Lasciando stare le sempre più spaventose riforme della scuola, questa negatività dei media ha prodotto luoghi comuni a iosa, mancanza di iniziativa, un lassismo cronico perché... perché in fondo tutti gli studenti sono delle testa di cazzo, gli insegnanti degli scansafatiche e, se dalle scuole i cornicioni si staccano, mancano i soldi per colpa della crisi. Insomma giustificarsi è d’obbligo.

Ora, per chi condivide un minimo la condizione della scuola sa quanto sia difficile insegnare ed educare oggi. Senza prenderci per il culo, i presidi/e assomigliano sempre più a funzionari che gestiscono carceri: a quasi nessuno interessa come entra un ragazzo e come ne esce; quel che importa è che la burocrazia vada spedita, l’istituto abbia abbastanza classi (tradotto, non bocciate altrimenti non si iscrivono, quindi meno soldi), loro si occupano della pubblicità, del documento, delle public relations e dell’ordine pubblico. La sera chiudono a chiave e il giorno dopo si rientra, in galera.

La scuola è un luogo ameno del passato, in quelle cinque ore si torna indietro di cinquant’anni, si usano strumenti antiquati e libri di testo. Dico con stupore libri di testo (anche se questo è motivo perenne di polemiche) perché bisognerebbe immaginare quale effetto produce, quale entusiasmo, lo studio di un libro su ragazzini abituati all’interattività, alle App, all’uso digitale di uno schermo, al Kindle, con una forma mentis stravolta dagli aggeggi che giorno dopo giorno gli abbiamo somministrato. Senza considerare quale sgravio per le famiglie sarebbe distribuire testi digitali con una USB. I responsabili chi sono? Non gli insegnanti che si ritrovano classi sempre più numerose, molti costretti a cambiare istituto e pure provincia ogni anno, con quelli più anziani a cui non sono stati dati gli arnesi basici per occuparsi di una generazione completamente nuova e quindi imprevedibile. Dileggiati dai governi, dopo un precariato ventennale, con scolaresche sempre più schizofreniche, con un limite di tre fotocopie al mese (giuro che l’ho sentita), capita allora che proprio gli insegnanti siano i primi a non appassionarsi, come si dovrebbe, allo sviluppo sia degli studenti sia del territorio dove vivono (scuola e territorio sono due cose molto, ma molto, unite). Certo, c’è anche chi non si è mai appassionato al proprio coniuge né tantomeno del lavoro, ma in ogni ambito.

Ok, non è questa la sede, oggi siamo qui per la buona novella. Torniamo al video. L’autore è il regista abruzzese Walter Nanni che, con poche lezioni, ha messo in pratica le tecniche e i trucchi insegnati agli studenti del suo corso di cinema. Contattato, ci ha offerto una visione diametralmente opposta (per fortuna) a quella sopra descritta: "Volevo che i ragazzi recepissero che il loro vero network sono loro stessi, la loro scuola, i loro amici, è la realtà dove si muovono quotidianamente".

Quindi la canzone di Jovanotti è stato il linguaggio ideale per far breccia sui tuoi allievi? "Naturalmente quella canzone, quel tipo di concept, mi serviva per arrivare a loro; Jovanotti è perfetto perché è uno dei pochi che in questi anni ha lavorato sul linguaggio, nelle sue canzoni trovi moltissimi messaggi inconsci. Facebook invece è il codice che i ragazzi visivamente conoscono. A quell’età gli studenti sono molto più svegli di quanto si possa immaginare e hanno compreso subito che quest’avventura li poteva aiutare a crescere umanamente".

C’è qualcosa in particolare che ti ha colpito di questa esperienza? "Sono rimasto sorpreso perché il corso è stato svolto in una piccola scuola di frontiera, sotto una montagna, lontana dalle grandi città e ho trovato un livello di sensibilità incredibile e un grande bisogno di esprimersi".

È stato difficile motivare gli studenti? "Tutt’altro, è stato molto semplice, ho spiegato sin dall’inizio che il filo sottile tra il fare una cagata pazzesca e una cosa bella era la loro anima, le loro facce vere, non i sorrisetti stupidi per apparire in TV".

Ammazza che sintesi! Gli insegnanti si sono messi subito in gioco? "Gli insegnanti, pur vivendo in una diversa dinamica, hanno partecipato attivamente, con tutte le loro energie... A parte questo mi sono ritrovato una preside avanti di almeno venti anni, che mi ha lasciato campo libero, potendomi esprimere con grande serenità. Siamo riusciti a coinvolgere tutti mettendo a soqquadro la scuola, tanto che spesso non si sono svolte nemmeno le lezioni!".

Ma l’ambiente, la scuola, cosa t’è sembrata? "Un ambiente molto vivo. Come spesso accade, paradossalmente, le energie delle periferie sono meno sature, capita che è la città a renderle più sterili".

Per l’appunto, una bella lezione. E sono state necessarie solo due settimane di corso, il pomeriggio, fuori dagli orari scolastici e con quattro giorni di riprese. Questa è la prova che i “cciofani” non sono così dementi come a qualcuno piace raccontarli e che, prima di formare un pappagallo che ripete fredde nozioni logiche, occorrerebbe strutturare il suo scheletro emotivo, la sua sensibilità, se non si vuole correre il rischio di spezzargli le ali della curiosità. Non è retorica. Anni fa, in un’intervista, il grande pedagogo brasiliano Paulo Freire disse: "C’è solo un modo di trasformare il presente e la sua cultura: bisogna entrarci dentro, per poi farne l’oggetto della trasformazione". Quante cose potrebbero imparare da certi uomini i nostri amministratori, se solo avessero la voglia di aprire qualche libro... Ma chiudiamo con l’epigrafe di Victor Hugo con cui si apre il video: “Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”. Per fortuna c’è ancora chi ci crede.


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